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Un curriculum a modo tuo (biografia arborescente di un aspirante intellettuale)

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monument valley

Questo pezzo è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista aut aut dedicato al lavoro intellettuale, curato da Massimiliano Nicoli e Dario Gentili. (Immagine: Monument Valley)

Non bisogna mai essere troppo choosy

(Elsa Fornero)

L’uomo non è altro che la serie delle sue azioni

(Friedrich Hegel)

Anche in questo caso, il racconto è finito.

(Raymond Queneau)

1

Hai diciannove anni e un vago riflesso edipico, una fragile coscienza politica, un insensibile moto generazionale ti spingono a pensare che no, non hai nessuna voglia di entrare nel ciclo produttivo del “capitalismo occidentale”. La tua posizione è altrove, a margine, leggermente decentrata rispetto al “sistema”. Lo senti: il tuo posto sarà quello di uno spettatore, ma non uno spettatore passivo: uno spettatore critico, attivo, molto loquace. Diciamo pure un intellettuale.

 Ti arroghi il diritto di coltivare questo privilegio e ti iscrivi a filosofia pieno di entusiasmo per il futuro che ti aspetta: vai al punto 2.

 Insistenti pressioni famigliari o un travagliato percorso interiore ti convincono che a certe occupazioni è meglio riservare il tempo libero (ti sei imbattuto in una frase di Primo Levi, autore prediletto: “di scrittura non si vive, perciò mi sono iscritto a chimica”). Meglio dedicare le proprie energie allo studio di un mestiere “vero”. Ti iscrivi a medicina e vai al punto 4.

2

Sei scaltro, ben consigliato e coperto economicamente da una famiglia che, volente o nolente, è disposta a farsi carico di una carriera accademica che si prospetta lunga e difficile. Accetti la spesa morale per la tua affiliazione alla parrocchia di un potente barone: dopo la laurea consumi tre anni di assistentato volontario prima di vincere il dottorato con borsa che ti è stato promesso. Per il post-doc devi attendere altri quarantotto mesi guadagnando un compenso poco più che simbolico in cambio di sei ore settimanali di tutoraggio e didattica integrativa. Di fronte alla prospettiva di micragnosi assegni di ricerca a singhiozzo valuti l’offerta di una sistemazione più promettente in un campus dell’Iowa.

 Decidi di partire per l’Iowa: vai al punto 3.

 Decidi di perseverare in Italia: vai al punto 5.

3

Negli sconfinati territori del midwest scopri un mondo universitario inedito, efficiente, democratico, meritocratico, abitabile. Tuttavia dopo un paio d’anni ti rendi conto il lavoro è pesante e le gratificazioni della ricerca non sono esattamente quelle che speravi. Ti manca l’Italia, il clima, la lingua, gli amici, la mozzarella. Seduto davanti all’Apple del tuo studio privato lo sguardo vaga distratto nel cerchio di conifere del parco alla ricerca di una soluzione.

 Allo scadere del contratto prendi la decisione sofferta di tornare indietro? Vai al punto 7.

 Meglio la sconsolata routine di un buon lavoro lontano da casa piuttosto che la certezza di un futuro malsano: l’Italia è un posto buono per andarci in vacanza, non per lavorarci (abbastanza cinicamente ripeti questa frase con l’unico amico di Roma che ancora senti, a intervalli sempre più prolungati, su Skype). Continui a sgobbare nel Campus e corri al punto 6 per conoscere il tuo futuro.

4

Gli insegnamenti obbligatori del primo anno ti assorbono completamente: non solo non trovi il tempo di aprire i romanzi e i saggi che ti eri prefisso di leggere ma perfino le uscite serali con gli amici sono diventate un bene di lusso. Impossibile giocare a calcio, impossibile suonare nei Nuovi Vaghi, il tuo gruppo storico del liceo. Impossibile fare qualsiasi cosa che non sia studiare. Uniche distrazioni: un solitario di windows o una partita a scacchi contro il computer come pausa distensiva tra un capitolo di embriologia e gli ingarbugliati schemi preparatori al temibile test di anatomia umana.

 Dopo un anno di studio disperato scegli di fare il passo indietro e tornare a una vita normale, a quella che desideri: socialità e cultura, persone interessanti e cose belle, viaggi, creatività, tempo libero. Cambi facoltà, ti iscrivi a filosofia e torni al punto 2.

 Tieni duro. Pensi a quello che stai facendo come a un necessario investimento sul futuro. Dopo la laurea recupererai il tempo perso, insieme a tutto il resto. Sei un giovane coscienzioso e questa storia non ti riguarda più: il tuo racconto finisce qui.

5

Al sesto anno di precariato post-laurea cominci a portare il pizzetto gentiliano del tuo professore e quando cammini congiungi le mani dietro la schiena in un atteggiamento meditativo-patriarcale che nasconde un principio di prostrazione psichica. A 37 anni sei in vista della promozione sperata ma continui a dividere la casa con un’amica ex compagna di dottorato (primo Wittgenstein), ora commessa di profumeria. La tua famiglia per quanto mediamente benestante non può permettersi di sostenere l’affitto di un appartamento intero per ogni figlio (ce ne sono altri due). Per arrotondare gli stipendiucoli intermittenti hai trovato un lavoro alimentare che preferisci tenere nascosto ai colleghi universitari. A 41 anni diventi ricercatore, prendi in affitto un bilocale dove vivi da solo, abbandoni i lavoretti clandestini e cominci a delegare parti sempre più cospicue delle tue mansioni a dottorandi o laureandi in odore di dottorato. Il tuo sguardo si è illanguidito, presti meno attenzione al tuo aspetto fisico, a come ti vesti, alla tua immagine pubblica, ma hai una discreta reputazione come studioso di Hegel e la tua sciatteria viene interpretata dagli studenti come un sintomo di genialità. Scavalcando gli ostacoli delle successive riforme diventerai associato a 52 anni e aspetterai l’ordinariato senza troppa fretta conducendo una vita apparentemente tranquilla, ormai dimentico delle belle speranze ma ancora capace di goderti i sudati privilegi infliggendo ai subordinati piccole soperchierie, vanagloriose ostentazioni, pignoli e spesso oziosi esercizi di potere. Questa storia per te finisce qui.

6

Ci vuole qualche anno ma alla fine, vedi, le cose si sistemano. O forse sei tu a cambiare, a regolarti, ad abbassare l’asticella misurando la felicità secondo parametri più consoni alla situazione in atto. Incontri una brava ragazza, una collega spagnola: vi sposate, mettete al mondo due pargoli, ogni tanto la sera progettate soluzioni fantasiose per un ritorno in Europa, ma è quasi un gioco, un rituale, un esorcismo. Nessuno dei due ci crede davvero. Il tempo scorre, i figli crescono e prendono in giro il tuo inglese arrotato, ottieni il posto di associate professor: scaricando una ricca spesa nel giardino della tua villetta monofamigliare pensi ai novantamila dollari che ogni anno guadagni tra stipendio e fondi privati di ricerca, capisci che quello di “casa” è un concetto economicamente, prima ancora che culturalmente, specifico. La tua storia finisce qua, tra le siepi di bosso e nella cruda saggezza del pragmatismo.

7

Quando sbarchi a Fiumicino prendi una boccata d’aria a 33 gradi centigradi e prima di farti strada tra la folla degli arrivi internazionali passi al bar per un panino con mozzarella e prosciutto di Parma e un caffé espresso al vetro. Fuori c’è tua sorella che ti accoglie con un sorriso materno. Tua madre è a casa a spadellare per festeggiare il ritorno. Dormirai nella cameretta dove sei cresciuto, fino a nuovo ordine. L’università italiana è una consorteria che non tollera abiure: quella strada ormai è over. La questione che ti si pone adesso è la seguente:

 Hai intenzione di continuare a esercitare un lavoro cosiddetto “culturale”? complimenti! Vai a al punto 8.

 Oppure ti è bastata l’esperienza pregressa e pensi bene di procurarti qualche “competenza” meglio “spendibile” sul “mercato del lavoro” sfruttando nel modo migliore quel che resta della tua gioventù (un brivido di malinconia ti contrae la palpebra al pensiero di una vecchia canzone di Sergio Endrigo)? In questo caso avanza pure senza troppa fretta fino punto 9: come narratore di questa storia ti resta poco da fare, bene o male che sia.

8

Dagli States cercavi di mantenere un contatto a bassa intensità con l’ambiente culturale extra-accademico italiano inviando saltuariamente al manifesto e a riviste di nicchia articoli di divulgazione filosofica sulle ultime frontiere della ricerca americana, tra scienze cognitive e studi culturali. Tutto a titolo gratuito. L’idea è quella di iniziare intensificando le collaborazioni giornalistiche, allargando i contatti con le redazioni grazie a un meticoloso lavoro di social-networking reale e virtuale. Poi qualcosa succederà, quando il tuo nome sarà più accreditato. Cominci a scrivere più spesso, o almeno ci provi. Invii mail articolando proposte ai capiservizio alla cultura di giornali nazionali che rispondono – quando rispondono – con messaggi enigmatici o assurdamente laconici. Dopo descrizione dettagliata di due pezzi alternativi conclusa dalla timida domanda: “Allora ce n’è uno dei due che ti può interessare?” ricevi un “Ok” che corrode dall’interno le tue risorse ermeneutiche. La recensione di un notevole saggio di bioetica proposta a un importante quotidiano viene accolta da “Qualcosa di più allegro?”. Col passare del tempo la comunicazione si fa ancora più sadica e intermittente. Articoli commissionati restano parcheggiati per settimane fino a scomparire nel buio delle redazioni. Alle mail di protesta rispondono i soliti messaggi telegrafici (“Scusa, tagliato pagine”, “Poi recuperiamo. Metto in pagamento”, “Oggi incasinato, chiama domani”). Ma i pagamenti non arrivano, al telefono non risponde nessuno e la tua autostima vacilla.

Nel frattempo cerchi di massimizzare la visibilità dei pezzi pubblicati promuovendoli spudoratamente sui social. Ti pieghi al diktat dell’algoritmo frequentando e commentando e “piaciando” per ricevere in contraccambio espandendoti nella bolla sociale, sublimandoti nell’intelligenza collettiva, buttando al cesso una certa idea di dignità personale che ti eri fatto negli anni ma ormai reputi anacronisticamente borghese, snob e controproducente. Patteggi al ribasso ingoiando piccole umiliazioni da nascondere sotto barattoli di rimedi naturali, pure costosi. Poi cominciano ad arrivare lettere dalle amministrazioni (cartacee, dolenti) dove si annunciano tagli dei compensi ai collaboratori esterni. Infine cadono le prime testate, insieme ai crediti insoluti di chi, come te, non entrerà mai nei registri dei curatori fallimentari.

Ed eccoci qua, sono passati quasi tre anni e né il tuo talento né l’automarketing né l’autosfruttamento hanno dato i risultati sperati: continui a dormire tra le figurine di Italia 90 (Zenga, Schillaci, Valderrama, Ciao), logore ma tenaci sull’eterno truciolato della cameretta. La riserva di denaro accumulato in America cala in maniera lenta ma inesorabile, anche senza la zavorra dell’affitto. Non ti sei ancora pentito di essere tornato ma cominci a tentennare. Fai un esame di coscienza, un consuntivo: un bilancio.

 Decidi che la cultura con i suoi baroni ingessati e capiservizio in fuga se ne può anche andare al diavolo. Sei disposto al compromesso. Non è ancora troppo tardi per seguire il consiglio di Primo Levi. Tutto sommato il punto 9 è quello che fa per te, potevi andarci prima ma meglio tardi che mai.

 Il giornalismo è in crisi per via della conversione digitale, accedere alle redazioni superstiti richiede santi che non hai né mai avrai, ma il vasto mondo dell’editoria non finisce lì: piccola, media, grande. Vitale, come testimoniano le fiere, le presentazioni che intasano la pagina degli eventi su facebook e che frequenti con una certa solerzia, i 164 libri al giorno (domeniche comprese) che vengono pubblicati nella penisola. Vai al punto 10 e vediamo se sei più fortunato.

9

Hai deciso di rispolverare le tue vecchie competenze informatiche. Negli anni novanta ti divertivi a programmare siti internet in html e css collezionando lunghe conversazioni di argomento tecnico sulle prime reti bbs. Ti iscrivi a un corso per web master della regione dove impari a usare i moderni cms e studi i rudimenti di php. Quanto ti senti padrone del codice, metti il curriculum su Monster, LinkedIn e altre piattaforme simili. Vieni chiamato in breve tempo da una società con sede a Frascati che ti affida la customizzazione dei cms per gli utenti finali. Otto/dieci ore al giorno di telelavoro cercando di fare in modo che il box in alto a sinistra della pagina non sfasci il layout grafico di quel particolare sito su quel particolare browser. Guadagni 950 euro al mese, ma almeno sono soldi sicuri. Il problem solving è un esercizio intellettualmente stimolante e la scrittura di una funzione di codice in fondo non è meno creativa di quella di un saggio accademico o della traduzione di un romanzo qualsiasi. Questa storia per te finisce qui, davanti a un caffé fumante, nell’infinita sequenza delle stringhe informatiche.

10

Intanto c’è l’inglese, idioma che mastichi volentieri senza curarti del tuo accento, nasalizzando più del necessario quando alle serate culturali un’artista residente all’American Academy o una lettrice della John Cabot stimolano la tua virilità. Tramite la tua rete di conoscenze ottieni abbastanza facilmente i primi lavori: saggistica e narrativa per 7 euro a cartella (lordi). Hai fatto due conti e capito che per ogni ora di lavoro guadagnerai meno dei raccoglitori subsahariani di pomodori pugliesi su cui un compagno di calcetto ha appena pubblicato un apprezzato reportage narrativo. Però traducendo hai conosciuto un grazioso ufficio stampa, vi siete innamorati e ti sei trasferito nel suo appartamento di 25 metri quadri al quartiere alessandrino dove passi molte ore lavorando e osservando dalla finestra la massiccia monumentalità dell’eponimo acquedotto. Quella solida testimonianza della grandezza imperiale ti aiuta ad attraversare con meno rimorsi le effimere giornate di lavoro sottopagato.

Tra una frase e l’altra posti status sul tradurre e altre varie raggranellando like bastevoli a scansare le tenebre. Intraprendi la redazione di un astioso romanzo sulla tua vita, sul precariato, anzi sul “cognitariato”, con una lunga parentesi ambientata all’estero (Parigi: per non ricalcare troppo letteralmente la realtà). Almeno un paio di tuoi conoscenti hanno ottenuto qualche riscontro scrivendo qualcosa del genere. Ci speri moderatamente. Esci spesso la sera perché non hai orari fissi e devi pur sfogare il tuo bisogno di mondanità. Non ti mancano gli amici, gente come te, addetti alla cultura con redditi imbarazzanti e molti progetti in corso. Bevete birra artigianale, parlate di serie tv americane e di come vanno male le cose in Italia.

 Questa vita in fondo ti piace, ti piace il ritmo lento del lavoro domestico, fare due passi la mattina nel quartiere desolato, tirare tardi la notte fino a quando una consegna imminente non ti obbliga alla chiusa rituale. Qualche intervento a piccoli festival libreschi, qualche tavola rotonda. Chiedere di tanto in tanto un aiuto economico ai genitori non ti pesa. Prosegui l’avventura al punto 11.

 Dopo un periodo di relativa pace maturi un odio inconfessato per quell’ambiente. La scarsità produce noia e conformismo. Sei nervoso. Sei stufo dei soliti discorsi, delle solite persone. Troppa autonomia, troppa libertà, troppa insonnia: vuoi un posto dove rendere conto ogni giorno a qualcuno di qualcosa. Vuoi arrivare a casa la sera logorato e addormentarti alle undici senza neppure la forza di pensare a quello che non va. Avanza fino al punto 12.

11

Il tempo passa a una velocità esasperante, nonostante tutto. Nel giro di tre anni sei passato da 7 a 12 euro a cartella (lordi). Hai due ingiunzioni di pagamento in corso, un editore che ti ha fregato dichiarando fallimento prima di pagarti e un altro – amico tuo – che ha promesso di darti il dovuto appena riuscirà a vendere un castello di famiglia nell’Oltrepo. Sara (l’ufficio stampa e fidanzata) ti lascia, o meglio tu lasci lei, non si è capito, comunque devi lasciare casa sua, il quartiere con l’acquedotto e il consolante sentimento della rovina. Quello che guadagni traducendo e facendo altri saltuari lavori editoriali non basterà a mantenere un appartamento. Raggiungi appena il reddito minimo tassabile anche se allo stato preferisci dichiararti “incapiente”, neologismo dall’etimologia incerta che ripeti ad alta voce mentre provi a infilare gli ultimi libri rimasti in uno scatolone pieno di oggetti da cucina, senza riuscirci.

Si avvicinano i quaranta, all’amico di un amico s’è liberata una stanza in affitto a piazza Vittorio. Vai a vedere rassegnato, e con un certo stupore riconosci nell’appartamento il luogo di memorabili festoni al tempo dell’università. Ti trasferisci come si accetta un infortunio e tra i fantasmi di giovani festanti mediti sui flussi e riflussi del tempo che scorre segnando il passo, tempo bastardo che si diverte a mostrarti l’immagine di una vita, la tua, povera di evoluzione, priva di svolte, spunti narrativi: forse perciò il romanzo quasi-autobiografico (con gli amici usi il termine “autofiction”) stenta a decollare. Tra i capitoli di un poliziesco keniota pieno di strani costrutti difficili da rendere in italiano compili un questionario dell’ANVUR sul collocamento professionale degli ex dottorandi, ed è un campo minato. Fai il conto delle cartucce che ti restano da sparare. Ecco il risultato:

 Credere che il lavoro debba corrispondere alle proprie aspettative (migliori, eventuali, di scorta) è un comportamento destinato allo scacco, viziato da un’immagine di benessere e dinamismo sociale scaduta e inattuale. Alla retorica anglosassone dello “sviluppo personale” non ci crede più nessuno. Non tu, comunque. Rinunciare all’ambizione, mortificare il desiderio di autoaffermazione. Quello di decrescita è un concetto che va applicato anzitutto a se stessi. E allora cambiare tutto, ora o mai più. Vai al punto 9. O se preferisci il cibo vai al punto 12.

 È sempre stata lì, fin dall’inizio di questa storia, in un angolo della tua coscienza accucciata tra la pigrizia e l’orgoglio come uno spauracchio e una exit strategy ultimativa evocata dalle premurose cure di qualche conoscente zelante e propositivo, di qualche amico che ha fatto il passo e non si stanca di lodarne i vantaggi, il confortante progetto impiegatizio che persino il tuo vecchio padre sostiene, visibilmente a malincuore (poveretto, si aspettava qualcosa di più): la scuola. Vai al punto 13.

12

La sera, quando esci a bere con i tuoi amici e colleghi precari dell’università, dell’editoria, del giornalismo, del cinema, del design, della fotografia, quella disomogenea compagine di intellettuali freelance o parasubordinati delle istituzioni culturali, cacciatori di bandi, coworkers e partite iva, quando ti ritrovi con questa gente, con la ex fidanzata, persino in famiglia, ripeti spesso, oltre alla frase “l’Italia è un posto buono solo per andarci in vacanza” (che ti sembra sempre molto icastica), anche “in Italia può andare tutto a rotoli, ma gli italiani non smetteranno mai di comprare cibo di qualità: affonderanno con la pancia piena di ottimi prodotti alimentari”. Lo dici perché lo pensi, lo vivi, ti piace cucinare, andare alla ricerca di nuovi ristoranti, spendi più soldi in cibo e bevande che per qualsiasi altro genere di consumo. Finalmente ti decidi a trarne le dovute conclusioni: un amico ti ha spiegato che il gelato è l’alimento con il rincaro più elevato, dell’ordine del 1500%, è disposto a formare una società. Un secondo amico ti propone di tentare con lui nell’import-export di delikatessen tra Francia e Italia, ha già un contatto con uno della camera di commercio che potrebbe darvi qualche dritta. Poi si fa avanti un terzo che vorrebbe lavorare sui vini piemontesi. Mimetizzata nella massa del quinto stato, come per magia si manifesta una squadra insospettabile di imprenditori in nuce che sembrano aspettare soltanto un complice per buttarsi nel settore enograstronomico. Alla fine opti per il vino.

Il capitale iniziale lo accumuli sommando un prestito bancario (garanti i genitori settantenni) a un prestito famigliare (sempre loro). Due anni dopo la startup si rivela se non vincente nemmeno perdente: tu e il tuo socio avete elementi sufficienti per esprimere una modesta soddisfazione. Intanto hai lasciato i coinquilini e la casa delle feste di ieri e sei tornato a vivere da solo in un comodo bilocale a Roma sud. Quando la sera riesci a staccarti da bolle, fatture e scartafacci affondi nella poltrona e sfogli classici che non avevi mai letto e che mai, pensi, avresti letto con tanto gusto e distensione se avessi continuato a seguire la tua vocazione culturale. Non tutte le illusioni sono andate perdute invano. In un racconto di Marcel Aymé, uno scrittore che hai tradotto nella tua vita precedente, c’era un pittore che dipingeva opere capaci di saziare la fame semplicemente guardandole: antifrasi perfetta, ironica e surreale illustrazione a contrario della triste verità che con la cultura, spiace dirlo, “non si mangia”. Spiace, ma lo dici comunque, lo ripeti traendone un piacere vendicativo quando esci con gli amici di sempre, i vecchi complici e colleghi che ti studiano, ti scrutano, cercano di afferrare il senso, il sostrato psicologico delle tue parole, valutare il costo reale di quel cambiamento radicale che in fondo pure loro desiderano. Prima di andare a letto estrai il segnalibro con il logo della tua società di distribuzione vinicola da L’uomo senza qualità, Einaudi, volume secondo, pagina 231. Lo hai iniziato sei mesi fa e questa storia finisce qui, per te, nella placida sazietà di un grande classico letto a tempo perso.

13

Il bandolo della matassa sono due parole: “Orizzonte scuola”. È il sito di riferimento. Quando chiedi consiglio ti dicono tutti di cominciare da lì. All’inizio non ci capisci nulla ma quando finalmente ti muovi con una certa disinvoltura cogli il senso claustrofobico di quel luogo, e di quel nome. Entri in contatto con esegeti professionisti delle arcane trame del MIUR, professionisti incalliti delle graduatorie, instancabili candidati alle più svariate classi di concorso. Un esercito di inoccupati o intermittenti forniti di mostruose competenze in materia di ordinamento e burocrazia scolastica, oberati di tecnicismi, rivendicazioni, contestazioni che risalgono, di riforma in riforma, fino agli albori dell’istruzione statale. Sono donne e uomini (ma soprattutto donne) costantemente in allerta, ricettivi a ogni minimo sommovimento ministeriale, a ogni emanazione del provveditorato, in attesa della soffiata, dell’informazione decisiva che diventerà il fulcro della loro giornata, la materia di lunghe telefonate, l’orizzonte nel quale si muoveranno le loro attese, i loro desideri, le prossime battaglie: l’orizzonte scuola, appunto.

 Questo orizzonte ti spaventa. L’idea di diventare uno di loro ti respinge. Un valutazione spassionata delle possibilità concrete di avere successo in quella giungla selvaggia ti scoraggia. Concludi che non avrai mai la tenacia necessaria per arrivare fino in fondo: torna al punto 9, o se preferisci rischiare torna al punto 12.

 Tieni duro, confidi nelle tue capacità adattive, minimizzi il panico e comunque, per quanto deteriore, al momento questa resta la possibilità migliore che ti si prospetta, anzi: l’unica. Vai al punto 14.

14

Anzitutto gli “esami singoli”, quelli necessari all’insegnamento scolastico che non hai fatto a suo tempo, quando con beata innocenza scommettevi senza riserve sul tuo futuro accademico: i primi conflitti con gli atenei e le loro segreterie disfunzionali, i primi salassi (400 euro ogni esame), di nuovo il tempo immobile, l’ironia spietata del passato che torna, l’amara regressione quando il giorno dell’esame ti ritrovi nel corridoio ad aspettare il tuo turno, un po’ in disparte, in mezzo a giovani studenti e studentesse che compulsano ansiosamente il manuale di storia medievale. Un “concorsone” a cadenza decennale ti passa davanti senza che tu possa partecipare per ragioni oscuramente formali. Quindi l’attesa apertura delle graduatorie, iscrizioni digitali e pomeriggi trascorsi in una sala del sindacato dove un povero cristo cerca di tenere a bada una massa urlante di aspiranti insegnanti che pretendono ragguagli circa la compilazione dei vari “modelli” per l’immissione. Affronti la trafila per accedere al TFA, il tirocinio abilitativo che dovrebbe proiettarti in pole position nelle graduatorie: superi piuttosto aleatoriamente tre esami che presuppongono una conoscenza esaustiva di duemila anni di storia e filosofia (classe A037).

Ti accomodi davanti a professori annoiati e pedanti, troppo impegnati nell’esibizione di una spocchia imperturbabile per cogliere il malessere sociale incarnato dai loro esaminati. Pensi che seduto dietro quel tavolo potresti esserci tu, se al punto 2 non li avessi mandati tutti a quel paese. Rispondi alle loro domande resistendo alla tentazione di farlo una seconda volta. Superata la terza prova paghi 2500 euro di rata (credito genitoriale) e inizi il tirocinio. Dopo un anno e mezzo dall’inizio delle procedure sei abilitato. Mandi curriculum alle scuole paritarie, senza esito. Finalmente l’ultima settimana di  agosto vieni convocato per una supplenza annuale presso un liceo scientifico a 42 chilometri da casa tua (hai controllato su Google Maps). Ti svegli ogni mattina alle cinque e mezzo e spesso, sul treno regionale che ti porta al lavoro, ripercorri con la memoria il tortuoso percorso, le tappe che ti hanno portato fin qui. Ti chiedi se da qualche parte, in qualche snodo della vicenda, c’era una soluzione che ti sei lasciato sfuggire, un’opzione mancante o una biforcazione che non hai visto e che ti avrebbe guidato altrove, in un posto migliore.

 Pensi di trovarla: con gesto estremo, radicale, sprezzante del tempo e dei soldi che hai speso finora ti concedi un’ultima possibilità tornando al punto 12, o al punto 10, o a qualche scelta alternativa  che la nostra storia ha trascurato per mancanza di tempo, spazio o fantasia.

 Non la trovi: continui a correggere le verifiche su Hegel mentre fuori dal finestrino, avvolte nel crepuscolo, scorrono le ultime frange periurbane.


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